

Ormai l’avrete capito leggendo gli ultimi due articoli, la situazione automobilistica europea mi preoccupa non poco e parte della colpa la do al green deal. Tra le vittime dell’attuale tempesta perfetta che ha colpito il mondo automotive europeo, una sembra essere stata lasciata agonizzante in un angolo e dimenticata da tutti come se fosse un giocattolo rotto: le utilitarie (o segmento A per i più precisi). L’aumento dei costi dovuto all’adattamento ai regolamenti europei sulle emissioni e l’aggiunta degli ADAS obbligatori, oltre all’aumento del costo generale di materie prime e energia post pandemia, ha infatti portato i costruttori o a tagliarle dai listini, o ad alzarle ad un prezzo tale da renderle non più molto appetibili in relazione alla loro natura di auto economica. E tutto questo senza considerare la sconsiderata tendenza a “suvvizzarle” e ingrandire senza un valido motivo. In questo frangente la visione di vari video dal Giappone mi ha colpito come un fulmine: e se anziché volerle elettrificare facendole costare come una familiare o toglierle dai listini, salvassimo le utilitarie facendole diventare delle kei-car europee?
Ma partiamo dall’inizio: cosa sono le kei car? Senza scendere in tematiche storiche lunghe e complesse che solo il buon Prof.Barbero saprebbe spiegare senza inutili prolissità, subito dopo la seconda guerra mondiale il Giappone come l’Europa si trovò a dover muovere il paese ma con poche materie prime a disposizione per produrle, portando i costruttori a puntare su auto che fossero piccole, essenziali e soprattutto economiche. Da questo proposito nel 1949 nacque la categoria dei “veicoli leggeri”, o kei-jidōsha per i giapponesi, che imponeva ai veicoli che non fossero più lunghe di 280cm, più larghe di 100cm e con cilindrate da 150cc per i quattro tempi e 100cc per i due tempi. I primi risultati tuttavia somigliavano più a tricicli vestiti da auto che non auto vere e proprie, portando già nei primi anni ’50 all’aumento delle cubature a 360cc. La prima vera kei-car fu la Suzuki Suzulight seguita dalla Subaru 360, capaci entrambi di grossi successi e portando il paese, così come successo in Italia, all’esplosione del mercato dell’auto negli anni ’60. Ad alimentarne il successo fu anche il pesante investimento del governo del sol levante nelle ferrovie e l’arrivo già nel 1964 degli Shinkansen, che si rivelò subito affidabile e rese le auto quasi inutili per le lunghe distanze. Con l’arrivo degli anni ’70 l’inasprimento delle norme sulle emissioni e sulla sicurezza, la cilindrata massima permessa salì fino a 550cc permettendo motori più da auto che non da moto, mentre le misure toccarono i 320cm di lunghezza e i 140cm di larghezza. L’esplosione dell’economia nipponica tra gli anni ’80 e i ’90 non solo fece aumentare la cilindrata a 660cc e i cavalli fino ad un massimo (teorico) di 64 cavalli, ma l’eredità sportiva derivante da alcune delle JDM di qualche articolo fa portò alla nascita di kei-car sportiveggianti come la Suzuki Cappuccino, o la Honda Beat a motore centrale. Oggi sebbene la cilindrata e i cavalli siano rimasti identici, la lunghezza è cresciuta fino a 340cm, l’altezza ha toccato i 148cm e la velocità massima limitata a 140 km/h. Per darvi un’idea delle dimensioni pensate che la 500 ibrida che possiedo, non certo un colosso, è 357cm per 162cm quindi ben più grande per un’utilitaria. Il risultato sono auto con forme che sembrano uscite da un manga o un anime, con pressoché qualsiasi tipo di carrozzeria ma capaci di trasportare 4-5 persone senza grossi problemi e, soprattutto, consumare pochissimo e infilarsi velocemente nel traffico congestionato di Tokyo, Kyoto e Osaka.
Usando le caratteristiche delle keì-car attuali e sovrapponendole alla situazione europea delle segmento A, si notano subito vantaggi non indifferenti a favore della loro adozione nel vecchio continente: il primo, per ovvi motivi, è il costo sia per chi le produce che per chi le compra. Data la dimensione infatti i materiali e l’energia necessari per produrle sarebbe pochissima, mentre l’utilizzo di 3 cilindri da 660cc eviterebbe alle case le costose multe legate all’ecotassa fissata a 95g/km. La riduzione di questi costi all’origine si tradurrebbe a sua volta in un costo più basso per l’acquirente sia per l’acquisto, una Suzuki Alto in patria costa 6.700 euro, sia nei costi di gestione come bollo, gestione, manutenzione, e revisione/tagliando. Costi che riguardano anche lo stato, che grazie al peso medio intorno ai 900kg si vedrebbe meno obbligato a mettere mano al portafoglio per rinforzare e rifare le infrastrutture, e all’ambiente che vedrebbe meno emissioni di Co2 in atmosfera. A questi aspetti va aggiunta la qualità della mobilità nelle nostre città: data infatti l’insufficienza generale dei nostri mezzi pubblici e la sommarietà (per essere gentile) delle ciclabili, molte persone si ritrovano a dover usare le auto per i propri spostamenti. Tuttavia, a causa delle dimensione medie delle nostre auto il traffico diventa sempre peggio anziché migliorare e, come detto prima, l’aumento importante di peso sta diventando dannoso non solo per le infrastrutture, ma anche per gli altri utenti della strada in caso di incidente.
Sebbene io la stia “facendo facile”, le problematiche legate alla creazione e/o all’arrivo delle kei-car esistono. La prima questione è legata all’Europa stessa: la situazione attuale dettata dal green-deal e il costo di energia/personale rende pressoché impossibile sia importarle, dati i costi di importazione e spostamento a sinistra del volante, sia far si che i produttori giapponesi le producano direttamente da noi. Un’opzione sarebbe farle produrre direttamente dai nostri marchi, ma servirebbe un regolamento su cui basarsi come quello del sol levante (scritto magari da persone competenti del settore), o creare una joint-venture europea per la creazione di una piattaforma comune per tagliare i costi di sviluppo, lasciando ai costruttori solo il compito di “vestirla” con uno stile in linea con quello del marchio. Di fondo però credo vada risolta una problematica più profonda, ovvero la nostra incapacità di accettare tutto quello che non sia a ruote alte, con interni ipertecnologici e materiali finto lussuosi. Se infatti non ci riabituiamo all’essenzialità sia stilistica che nei contenuti, e con questo non dico di tornare all’età della pietra, le kei-car difficilmente potranno sfondare in Europa e in particolar modo in Italia.